L'apertura della Fiera del Libro di Francoforte tra le critiche: il discorso del brasiliano Luiz Ruffato diventa storia - Cultura Brasil

L'apertura della Fiera del Libro di Francoforte tra le critiche: il discorso del brasiliano Luiz Ruffato diventa storia

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Fiera del Libro di Francoforte, il Brasile ospite d'onore con la presenza dell'acclamatissimo scrittore Luiz Ruffato.

Era l'8 ottobre, Luiz ha aperto la rassegna con un discorso che ha disorientato un pubblico di 2'000 persone. Con una serenità esemplare, Ruffato ha descritto il proprio Brasile senza alcun filtro: il celebre discorso parlava di una nazione nata sotto l'egida del genocidio, ferita dall'impunità, dall'ignoranza e dalla violenza; lo stesso concetto di democrazia razziale si sgretolava dinanzi alla piaga del razzismo. Erano parole che avrebbero fatto impazzire qualunque Brasiliano patriota superficiale, ma la conclusione dello scrittore era illuminata dalla luce della speranza: il popolo verde oro ha una grande possibilità di redimersi offertogli dalla letteratura, una buona dose di cultura potrebbe far risvegliare le coscienze delle persone e portarle a sfruttare a pieno tutte le possibilità che una grande nazione può offrire.
Il pubblico della fiera, formato prevalentemente da personaggi al vertice del mondo politico tedesco, ha reagito positivamente, alzandosi in piedi ed applaudendo;il Ministro degli Esteri tedesco Guido Westerwell ha addirittura offerto al Brasile l'entrata nel Consiglio di Sicurezza dell'ONU.
Luiz Ruffato, tuttavia, è stato anche vittima di fraintese da parte di connazionali, i quali non lo hanno risparmiato da vere e proprie aggressioni verbali on line. Lo scrittore ha risposto di non aver fatto altro che ritrarre il Brasile così come era apparso ai propri occhi, senza assumere un atteggiamento critico nei riguardi del governo. Luiz, fondamentalmente, ha sofferto nel vedere Brasiliani che ancora non accettano un quadro realista della propria nazione e si è difeso affermando che la letteratura è uno specchio della società e, in quanto tale, ha bisogno di lucidità e sincerità comandate da una grande dose di imparzialità; ha aggiunto, inoltre, di non mutare il proprio atteggiamento critico fino a quando il Brasile non sarà migliorato.

Ecco di seguito il discorso di Luiz Ruffato:
Cosa vuol dire essere scrittore in un paese situato nella periferia del mondo, un posto dove il termine capitalismo selvaggio non è una metafora? Per me, scrivere è un compromesso. Non c'è modo di rinunciare al fatto di abitare alla soglia del XXI secolo, di scrivere in portoghese, di vivere in un territorio chiamato Brasile.
Si parla di globalizzazione, ma le frontiere sono cadute per le merci, non per il transito delle persone. Proclamare la nostra singolarità è una forma di resistenza al tentativo autoritario di appianare le differenze.
Il maggior dilemma dell'essere umano di tutti i tempi è stato esattamente questo, quello di aver a che fare con la dicotomia io-altri. Perchè, sebbene l'affermazione della nostra soggettività si verifichi attraverso il riconoscimento dell'altro - è l'alterità che ci restituisce il senso d'esistere -, l'altro è anche chi può annichilirci.
E se l'umanità si edifica in questo movimento oscillante tra aggregazione e dispersione, la storia del Brasile viene componendosi quasi esclusivamente nella negazione esplicita dell'altro, per mezzo della violenza e dell'indifferenza. Siamo nati sotto l'egida del genocidio. Dei quattro mila indios che esistevano nel 1500, ne restano oggi circa 900 mila, parte di loro vive in condizioni miserabili in baracche sui cigli delle strade o addirittura nelle favelas delle grandi città. Ci si avoca sempre, come segno di tolleranza nazionale, la chiamata democrazia razziale brasiliana, mito secondo il quale non ci sarebbe stato annichilimento, ma semplicemente assimilazione degli autoctoni. Questo eufemismo, tuttavia, serve appena a celare un fatto indiscutibile: se la nostra popolazione è meticcia, si deve all'incrocio di uomini europei con donne indigene o africane - ossia, l'assimilazione si è avuta tramite lo stupro dei nativi e dei neri da parte dei colonizzatori bianchi.
Fino alla metà del XIX secolo, cinque milioni di africani neri furono imprigionati e deportati in Brasile. Quando nel 1888 fu abolita la schiavitù, non c'è stato nessuno sforzo di facilitare delle condizioni degne per gli ex schiavi. Così, fino ad oggi, 125 anni dopo, la grande maggioranza degli afrodiscendenti continua ad essere confinata alla base della piramide sociale: raramente sono visti tra medici, dentisti, avvocati, ingegneri, manager, giornalisti, artisti, registi, scrittori.
Invisibile, umiliata da bassi salari e destituita dalle prerogative primarie della cittadinanza -- dimora, trasporto, ferie, educazione e salute di qualità --, la maggior parte dei Brasiliani è stata sempre parte scartabile dell'ingranaggio che muove l'economia: 75% di tutta la ricchezza si trova nelle mani del 10% della popolazione bianca e appena 46 mila persone possiedono metà delle terre del paese. Abituati storicamente ad avere solo doveri, mai diritti, soccombiamo con una strana sensazione di non appartenenza: in Brasile, quello che è di tutti non è di nessuno...
Convivendo con una terribile sensazione di impunità, giacché il carcere funziona solo per chi non ha soldi per pagare buoni avvocati, l'intolleranza emerge. Colui che, nell'abbandono di una vita ai margini, non ha una legge che lo faccia riconoscere come essere umano dalla società, reagisce in relazione all'altro non accentando anch'egli questa regola. Quando non vediamo il prossimo, il prossimo non ci vede. E così accumuliamo i nostri odi -- il simile diventa nemico. Il tasso di omicidi in Brasile raggiunge i 20 assassinati ogni 100 mila abitanti, ciò che equivale a 37 mila persone morte per anno, un numero tre volte superiore alla media mondiale. E chi è più esposto alla violenza, non sono i ricchi che si chiudono dietro muri alti di condomini chiusi, protetti da linee elettrificate, sicurezza privata e sistemi di vigilanza elettronica, ma i poveri confinati in favelas e quartieri di periferia, alla mercé di narcotrafficanti e poliziotti corrotti.
Maschilisti, occupiamo il vergognoso settimo posto tra i paesi con il maggior numero di vittime di violenze domestiche, con un saldo, negli ultimi 10 anni, di 45 mila donne assassinate. 
Codardi, nel 2012 abbiamo accumulato più di 120 mila denunce di maltrattamenti contro bambini e adolescenti. Ed è risaputo che, tanto in relazione alle donne quanto ai bambini e agli adolescenti, questi numeri sono sempre sottostimati.
Ipocriti, i casi di intolleranza in relazione all'orientamento sessuale rivelano, esemplarmente, la nostra natura. Il luogo dove si realizza la più importante parata gay del mondo, che arriva a riunire più di tre milioni di partecipanti, l'Avenida Paulista, a San Paolo, è lo stesso che concentra il maggior numero di attacchi omofobi nella città.
E qui tocchiamo un punto nevralgico: non è una coincidenza che la popolazione carceraria brasiliana, circa 550 mila persone, sia formata originariamente da giovani tra i 18 e i 34 anni, poveri, neri e con istruzione bassa.
Il sistema di insegnamento è lungo la storia uno dei meccanismi più efficaci di mantenimento dell'abisso tra ricchi e poveri. Occupiamo gli ultimi posti nel ranking mondiale che dà valore alla frequenza scolastica: circa il 9% della popolazione resta analfabeta e il 20% è classificata come analfabeta funzionale -- ossia, uno ogni tre brasiliani adulti non ha la capacità di leggere e interpretare i testi più semplici.
La perpetuazione dell'ignoranza come strumento di dominazione, marchio registrato della élite che è rimasta al potere fino a molto recentemente, può essere misurato. Il mercato editoriale brasiliano muove annualmente circa 2,2 miliardi di dollari e quasi il 25% di questo totale è rappresentato da compere del governo federale, destinate ad alimentare biblioteche pubbliche e scolastiche. Intanto, continuiamo a leggere poco, in media meno di quattro titoli all'anno e nell'intero paese c'è solo una libreria per ogni 63 mila abitanti, ancora più concentrate nelle capitali e nelle grandi città dell'entroterra.
Siamo andati avanti, tuttavia.
La maggiore vittoria della mia generazione è stata il ristabilimento della democrazia - sono 28 anni interrotti, poco, è vero, ma si tratta del periodo più lungo della vigenza dello stato di diritto in tutta la storia del Brasile. Con la stabilità politica ed economica, abbiamo accumulato conquiste sociali sin dalla fine della dittatura militare, la più significativa è, senza alcun dubbio, la chiara diminuzione della miseria: un numero impressionante di 42 milioni di persone è salita socialmente negli ultimi 10 anni. Innegabile, ancora, l'importanza dell'implementazione di meccanismi di trasferimento di rendita, come le borsa famiglia, o di inclusione, come le quote razziali per l'ingresso nelle facoltà pubbliche.
Infelicemente, nel frattempo, nonostante tutti gli sforzi, è immenso il peso della nostra eredità di 500 anni di mancato rispetto delle regole. Continuiamo ad essere un paese dove, casa, educazione, salute, cultura e tempo libero non sono diritti di tutti, ma privilegi di alcuni. Dove la facoltà di andare e venire, in qualunque momento e a qualunque ora, non può essere esercitata perchè mancano le condizioni di sicurezza pubblica. Dove la stessa necessità di lavorare, in cambio di un salario minimo equivalente a circa 300 dollari mensili, va incontro a difficoltà elementari come la mancanza di un  trasporto adeguato. Dove il rispetto all'ambiente non esiste. Dove siamo abituati a prendere in giro le leggi.
Siamo un paese paradossale.
Adesso il Brasile sorge come una regione esotica, di spiagge paradisiache, foreste edeniche, carnevale, capoeira e calcio; adesso come un posto orribile, di violenza urbana, di turismo sessuale e prostituzione infantile, inottemperanza dei diritti umani e disprezzo per la natura. Adesso festeggiato come uno dei paesi più preparati per occupare il posto di protagonista nel mondo -- grandi ricchezze naturali, agricoltura, allevamento e industria diversificata, enorme potenziale di crescita, di produzione  di consumo: ora destinato ad un eterno ruolo secondario, di fornitore di materia prima e prodotti fabbricati con mano d'opera economica, per mancanza di competenza nell'amministrare la propria ricchezza.
Adesso, siamo la settima economia del pianeta. E restiamo al terzo posto tra i paesi più diseguali di tutti...
Ritorno, allora, alla domanda iniziale: che cosa significa abitare in questa regione situata nella periferia del mondo, scrivere in portoghese per lettori quasi inesistenti, lottare, infine, tutti i giorni, per costruire, in mezzo alle avversità, un senso alla vita?
Io credo, forse anche ingenuamente, al ruolo trasformatore della letteratura. Figlio di una lavandaia analfabeta e un venditore di popcorn semianalfabeta, io stesso venditore di popcorn, cassiere di botteghino, commesso di ferramenta, operaio tessile, tornitore meccanico, dirigente di fast food, ho avuto il mio destino cambiato dal contatto, sebbene fortuito, con i libri. E se la lettura di un libro può cambiare la direzione della vita di una persona ed essendo la società fatta di persone, allora la letteratura può cambiare la società.
Nei nostri tempi, di esacerbato attaccamento al narcisismo e stremato culto dell'individualismo, ciò che per noi è sconosciuto e che quindi dovrebbe risvegliare il fascino per il mutuo riconoscimento, viene visto, più che mai, come qualcosa che ci minaccia. Giriamo le spalle all'altro -- sia lui un immigrato, il povero, il nero, l'indigena, la donna, l'omosessuale -- come tentativo di preservarci, dimenticando che così implodiamo nella nostra condizione di esistere. Soccombiamo alla solitudine e all'egoismo e neghiamo noi stessi. Per oppormi a ciò, scrivo: voglio disturbare il lettore, modificarlo, per trasformare il mondo. Si tratta di un'utopia, lo so, ma mi alimento di utopie. Perché penso che il destino finale di tutti gli esseri umani dovrebbe essere unicamente questo, quello di trovare la felicità sulla Terra. Qui e adesso.

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